Velio decise di suicidarsi il diciannove aprile del settanta. Non aveva ancora vent’anni ma si odiava come se si conoscesse da molto di più.
Decise per sé la morte più atroce concepibile, una morte così lenta che a compiersi avrebbe impiegato l’intera sua vita. Velio impiegò tutta la vita a morire, mangiava, dormiva, faceva sport, sesso, viaggi, con quell’unica consapevolezza autodistruttiva, si svegliava la mattina e dedicava ogni istante al perfezionamento della propria morte, ascoltava il tempo alimentare la sua vecchiaia, la lenta corruzione molecola per molecola del corpo e delle sue funzioni, e non aveva ancora trent’anni.
Velio non fingeva di vivere, viveva eccome, viveva per nutrire il suo suicidio, per mantenere vivo il suo morire. A quarant’anni la sua terza moglie gli diede due figli, due maschietti sani e robusti come il papà.
Le sue imprese sono note a tutti ed è difficile immaginare una vita più ricca di glorie e di successi. Eppure l’unica potente emozione al termine di ogni giornata trascorsa tra lo svago e gli impegni era l’intima consapevolezza di trovarsi di un giorno più vicino alla morte.
Cinquant’anni, un numero straordinario di donne, un’irrefrenabile ascesa economica e politica, amici, amanti, figli, servi e lacchè, ovunque affetto o invidia, mai indifferenza. Vivere fino in fondo, in piena consapevolezza, era il prezzo che Velio pagava per morire al massimo.
La malattia arrivò alla soglia dei 70. Lottò a lungo, vi si oppose con tutte le sue forze al solo scopo di prolungare quell’agonia che si portava dentro da tutta la vita.
Visse altri 29 anni, il suo nome intitolava strade, scuole, generazioni di figli, una nuova galassia, i più prestigiosi premi artistici e scientifici.
Se ne andò un giorno di marzo, la sua salma restò esposta per mesi, e milioni di visitatori da tutto il mondo poterono commuoversi dinanzi alla miracolosa intensità del suo sorriso, che grigi dottori e scettici incalliti attribuivano a spasmi post-mortem.
A un anno esatto dalla morte fu scoperto il monumento funebre con la misteriosa epigrafe che Velio stesso aveva dettato nel suo testamento. Quelle parole causarono decenni di accaniti dibattiti, indagini inconcludenti e azzardate fantasie.
L’epigrafe diceva semplicemente: “perdonate l’insano gesto”.1
Nella foto: ho perso
tanti amici proprio così.
- Parabola tratta da: P.INCERTO, C’era una volta che un giorno crollò, ASSUMMA, 2002, p.34 segg. [↩]
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